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Per
dieci minuti
Autore:
Chiara Gamberale
Genere:
drammatico, sentimentale, psicanalisi.
Essere
lasciati improvvisamente dal proprio marito è una bruttissima
esperienza.
Un
viaggio d'affari e poi una vita nuova. Distante da quella donna che
ti ha seguito nella grande città e che sprofonda in un periodo di
difficoltà simile ad un limbo apparentemente senza fine.
Poche
parole: lacunose spiegazioni tenute in fin di vita più da una
multiforme speranza che insegue una mitologica verità. Simile ad un
ubriaco che nella propria stanza buia palpeggia l'oscurità come un
avido amante in cerca non della luce bensì dell'ultima bottiglia.
Chiara
è rimasta sola con i sui persuasivi ricordi. Non riesce a scrivere,
pensa. Ha perso il lavoro, pensa. Soffre nella sua intima fragilità,
pensa.
Il suo
stato d'animo la porta dalla psicologa che le propone un gioco: per
trenta giorni consecutivi, 10 minuti al giorno, sperimentare qualcosa
di nuovo.
E'
l'inizio di un ciclo «dal fare». Tante piccole nuove esperienze.
Dai pancake, al guardare un filmato porno, dal tentativo di palestra,
a un piccolo furto.
Ogni
capitolo racconta una di queste «cose nuove» e si aggancia
all'evoluzione consapevole del suo stato d'animo introducendo il
meccanismo decisionale che la porta a scegliere come impiegare questi
10 minuti.
Nel
sottofondo, aleggia costante e imperturbabile la riproduzione, su
carta, delle sue riflessioni. Simile ad una coltre di nebbia che
avvolge, ammanta, silenzia la persona. Il proprio Io.
Tanto
smarrimento e molti patemi d'animo.
Capitoli,
dal punto di vista espositivo, tutti uguali. Un oligarchia di
confusione determinata dal tentativo di voler esprimere molto per
stabilire un rapporto empatico, quasi complice, con il lettore. Il
risultato però, sono pensieri lunghi, frastagliati, dinamicamente
caotici che sottopongono il lettore-ricevente a delle
somministrazioni di aggettivi, sinonimi, metafore, allegorie, il
tutto formato tsunami. Si crea per effetto una dispersione che non
circoscrive l'azione del pensiero, blasfemo o realista che sia. Siamo
di fronte ad un trasloco infinito di beni non catalogabili.
Anche
l'organizzazione focale dello stile narrativo è la medesima:
diffusione, poi assorbimento e tutto che ricomincia daccapo nel
paragrafo successivo. A tratti si percepisce un moto di liberazione
«stop & go» che però è così labirintico che ad ogni angolo
si smarrisce.
Il
costrutto di periodi lunghi e ripetitivi, nel tentativo rafforzativo,
anzichè alimentare il senso visivo dell'immedesimazione sembra più
un autoconvincimento emotivo della scrittrice che sentendo dentro di
sé irrompere il «tanto» vuole di getto conficcarlo sulla carta
attraverso una battitura incalzante, ma disordinata.
Il
carattere telegrafico dei pensieri minimalisti, all'opposto, propone
quale alternanza alle sue riflessioni escatologiche una realtà che
irrompe nell'alveo delle ipotesi e degli altroquando, ma anche in
questo caso il testo è affetto da una capacità visiva monca,
menomata, trasognante.
L'assenza
di realismo muove il lettore in una terra di nessuno dove tutto il
probabile diventa possibile.
Tutto
questo rivela lo spettro transitorio di una debolezza emotiva che
sembra più un transfer compiuto a metà: un paradosso dell'essere e
del non essere. Il risultato è un sentimento di malcontento quale
residuo delle scelte che l'Autrice più volte cita. Malcontento che
defunzionalizza l'Essere, lasciandosi dietro, per esclusione, una
logica anoressica che si autolegittima oltre la soluzione.
Definitivamente,
si percepisce più una debolezza intuitiva che formale.
Questi
10 minuti sembrano un espediente per fuoriuscire dal crogiolo
giornaliero di autoasservimento emotivo. Di abbandono. La presa di
consapevolezza cioè che la prigione entro la quale ci possiamo
rinchiudere pur non avendo sbarre ce le costruiamo noi. Anche se
invisibili. Un mallo quindi, all'interno del quale la sofferenza
provoca il denutrimento dell'Io e la ripetizione diventa una facile
coperta di Linus in cui rifugiarsi, ma nella quale non guarire. Il
rischio è l'assuefazione con la conseguenza di somatizzare la
convivenza con il dolore.
Il
carattere gentilizio delle frequentazioni è troppo poco comune
rispetto alla gente che legge. La vita dell'Autrice è diversa da
quella di tanti altri e comunque beneficia di una notorietà che la
rende distante dal lettore medio e come tale difficile da
immedesimare.
La
figura del Bambino è una riscoperta del Sè, meno contaminato dagli
errori della crescita. Incontriamo lo sfogo materno della protezione
e numerose altre icone note alla psicanalisi e alla sociologia.
Il
finale è sconclusionato perchè troppo amorevolmente possibilista.
C'è ancora tanta indeterminazione e molta, davvero troppa
adolescenza. Siamo ai livelli delle canzoncine liceali che prima ti
dicono quanto si possa soffrire poi ti propongono il ritornello
dell'happy end come un regalone impacchettato con il fioccone
colorato della speranza.
«10
minuti» è un romanzo a mio parere scadente che mi ha decisamente
annoiato. L'ho trovato profondamente immaturo e con uno stile
espositivo a tratti concitato, a volte opprimente, spesso fastidioso.
Sconsigliato.
Marco Solferini
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